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Rubriche > MISTERI NASCOSTI > SUL CONCETTO DI VERITA' STORICA - LA VERITA' ASSOLUTA - ESISTE UNA VERITA' OGGETTIVA? - L'UTILITA' DELLA CONOSCENZA - VERITA' E LIBERTA' - QUANDO UNA TEORIA E' GIUSTA?
SUL CONCETTO DI VERITA' STORICA - LA VERITA' ASSOLUTA - ESISTE UNA VERITA' OGGETTIVA? - L'UTILITA' DELLA CONOSCENZA - VERITA' E LIBERTA' - QUANDO UNA TEORIA E' GIUSTA?
Articolo di Adriana Piccolo pubblicato il 17/4/2011 (1391 Letture)
gif70Una visione pessimistica della storia era quella staliniana, secondo cui quanto più sarebbe stata forte l'affermazione del socialismo, tanta più resistenza esso avrebbe incontrato. Il che, detto altrimenti, voleva dire che quanto più si verrà a conoscere la verità della storia, tanta meno disponibilità vi sarà ad ascoltarla.

Nessuno dovrebbe sentirsi autorizzato ad affermare cose del genere. Non si dovrebbe togliere a nessuno la possibilità di ricredersi. Soprattutto non si dovrebbe togliere a se stessi il dubbio di aver commesso degli errori.



E' vero, l'occidente latino imperiale, feudale e capitalistico ha compiuto crimini orrendi per imporsi sul mondo intero, e i periodi di pace altro non sono stati, storicamente, che il frutto di un'amara rassegnazione da parte degli sconfitti. La menzogna è andata di pari passo con periodi relativamente pacifici.




E tuttavia nessun tribunale della storia ha diritto di togliere all'occidente la possibilità di realizzare il socialismo democratico.




Probabilmente, quanto più gli sconfitti solleveranno la testa, usando strumenti opposti a quelli usati in occidente, o comunque modalità diverse nell'uso degli stessi strumenti, tanto meno l'occidente sarà disposto a tollerare la propria fine storica.




Ma noi abbiamo sempre in mente le civiltà e, sotto questo aspetto, ci pare impossibile, attualmente, una conversione dell'occidente al socialismo. In realtà la configurazione borghese dell'occidente è solo una delle possibili, non l'unica né l'ultima e neppure la migliore.



Quattro candeleAlla pace frutto della sottomissione è preferibile lo scatenamento della verità. Agli uomini occorre dare la possibilità di ricominciare da capo, anche se questo dovesse comportare la rinuncia a cose che fino a quel momento parevano essenziali.



LA VERITA' ASSOLUTA




Non si può parlare di "verità assoluta" dicendo ch'essa è inesauribile. In che modo si può sostenere che esiste una o "la" verità assoluta quando di questa verità non siamo in grado di dare alcuna definizione, alcuna determinazione definitiva?




Noi diciamo che con le nostre verità abbiamo l'ambizione di sottrarci al relativismo, di passare dal soggettivismo delle opinioni alla verità oggettiva dei fatti. Ma più di questo non potremmo né dovremmo dire, poiché il concetto di verità assoluta non fa parte della storia degli uomini, è fonte di misticismo.




La verità assoluta, se esiste, ci sovrasta. Noi dovremmo semplicemente limitarci a dire che tutti i nostri sforzi devono essere volti a cercare la giustizia, l'uguaglianza, la pace... Che poi da questi sforzi si possa trarre la conclusione d'aver ottenuto una verità più oggettiva di altre, sarà la storia a deciderlo.




O forse neppure la storia sarà in grado di decidere quando una verità oggettiva si avvicina di più alla verità assoluta.



ESISTE UNA VERITA' OGGETTIVA?




Tutti sanno che se usassimo il gas invece della benzina (rossa o verde la differenza non è poi così grande) ci sarebbe meno inquinamento.




Lo sanno tutti, e già da qualche decennio: non è più dunque un'opinione personale di qualche ecologista (come appunto lo era qualche decennio fa).




Eppure continuiamo a usare la benzina e dalle fabbriche non escono neppure delle macchine adattate al solo gas.




Da un lato quindi c'è una verità oggettiva: l'uso del gas diminuisce l'inquinamento (almeno rispetto a quello che procura la benzina, il diesel ecc.); dall'altro esiste una verità che, se anche ieri poteva apparire oggettiva (è stato meglio usare la benzina che il carbone), oggi, di fronte alla nuova verità, appare soggettiva, cioè arbitraria.




Essa infatti è la verità delle multinazionali petrolifere che non vogliono perdere i loro profitti.




Ma allora davvero la regola della maggioranza non vale nello stabilire il criterio della verità oggettiva? Dobbiamo forse lasciar decidere a una piccola minoranza cos'è bene e cos'è male per tutti i cittadini?




E' vero che quando si afferma la relatività di ogni verità, si finisce col negare un preciso valore alla democrazia?




O vogliamo forse credere che se una verità vale l'altra, è meglio lasciar decidere al destino? E' forse questo un atteggiamento scientifico?




A questo punto vien da chiedersi se l'umanità, in virtù della scienza, abbia veramente fatto dei passi in avanti.




Siamo del tutto d'accordo che il progresso tecnico-scientifico di per sé non è indice di “civiltà”, ma, se per questo, nemmeno lo è l'assenza di tale progresso.




Per dimostrare tale coincidenza occorre verificare i risultati delle scoperte scientifiche e delle applicazioni tecnologiche. Il terminus ad quem dovrebbe essere sempre la soddisfazione dei bisogni umani, materiali e spirituali (di “tutti” gli esseri umani).




Se dopo questi ultimi 500 anni di storia ci siamo accorti che il gioco non vale la candela (ad es. perché, in ultima istanza, gli svantaggi superano i benefici, o perché non tutti gli esseri umani vengono “soddisfatti” allo stesso modo), possiamo anche decidere di fermarci (e persino di tornare indietro).




Ma per poterlo fare, dobbiamo forse aspettare di pagare tutti le conseguenze delle nostre illusioni con una apocalittica guerra mondiale o con un cataclisma di tipo atmosferico, oppure dobbiamo continuare a servirci delle conquiste della scienza e della tecnica per dimostrare che esiste un altro modo di vivere il nostro rapporto con la natura?



L'UTILITA' DELLA CONOSCENZA




Tutta la conoscenza del mondo occidentale ormai si riduce unicamente alla propria organizzazione interna (più o meno gerarchica), nel senso che il problema principale è diventato quello di come organizzare una mole spropositata di informazioni.




La conoscenza non viene usata per risolvere i problemi fondamentali della vita, che sono generalmente quelli connessi alla sopravvivenza (non è questo il suo scopo fondamentale, anche se a questo può servire), ma viene usata per riprodurre una forma di esistenza piena di contraddizioni insolute.




La conoscenza dominante è uno strumento utile non al superamento del capitalismo, ma alla sua riproduzione (che è sempre più stentata, in verità). E la sopravvivenza del capitale non garantisce affatto quella del lavoro, per quanto non possa esistere capitale senza sfruttamento del lavoro altrui.




I cittadini, i lavoratori vengono utilizzati per fornire al capitale le informazioni utili alla sua riproduzione e, così facendo, pongono delle ipoteche sul loro futuro tanto più pesanti quanto più è qualificato il loro lavoro. Infatti oggi è soprattutto in virtù del lavoro qualificato (intellettuale) che il capitale può meglio riprodursi.




L'unico problema che il capitale pone al lavoro è quello di organizzare le conoscenze sufficienti alla sua sopravvivenza. E poiché queste conoscenze appaiono sterminate, il lavoratore ha la percezione che la potenza del capitale sia infinita.




La società viene avvertita come una realtà troppo complessa per poter essere modificata nei suoi aspetti essenziali. Può solo essere regolamentata. Solo attraverso canali non ufficiali, marginali o addirittura clandestini si può ottenere una conoscenza anti-sistema.



VERITA' E LIBERTA'




Nei rapporti umani la schiettezza può essere tollerata solo se è reciproca.




Per sopportare il peso della verità occorre una grande maturità, che può svilupparsi solo con una frequentazione assidua e una disponibilità mentale ad accettare il diverso.




Nella reciprocità sta il segreto della disponibilità ad accettare dei rapporti basati sulla verità. Non bisogna aver paura di dire la verità, ma bisogna anche saper dosare la verità alle capacità di ricezione altrui.




Dire tutta la verità, nient'altro che la verità - come si vuole nei processi - è pura illusione, in quanto, quando ciò avviene, in generale, può avvenire solo nella libertà reciproca e non nella costrizione di una parte sull'altra.




Di regola la verità viene detta in rapporto a chi la ascolta, cioè sulla base di un'adeguata contestualizzazione di spazio, di tempo, di cultura, di valori e soprattutto di sensibilità.




Ecco perché non si arriva mai, in determinati contesti spazio-temporali, ad andare oltre certi livelli di approfondimento della verità.




Infatti, un livello molto profondo di verità implica un livello non meno profondo di libertà.




La verità rende liberi, ma è anche vero il contrario: senza piena libertà non c'è piena verità.




Poiché la libertà non è un mero processo intellettuale, ma sociale (cioè personale e insieme collettivo), anche la verità non può prescindere dagli aspetti sociali che la devono supportare.




Se la verità non porta alla libertà sociale, col tempo essa viene dimenticata o addirittura sostituita dalla menzogna. La verità spesso è talmente soggetta a censure e strumentalizzazioni che ad un certo punto si perde la consapevolezza tra vero e falso. La verità diventa un aspetto così superficiale che il confine che la separa dalla falsità è quasi invisibile. Ecco perché tutte le dittature sostengono che una falsità ripetuta più volte si trasforma in verità.




Quanto più è forte la mancanza della libertà, tanto più è forte l'odio nei confronti di chi dice la verità.




Nei processi la formula del giuramento dovrebbe essere questa:




- Dica quanto è umanamente accettabile e utile per la collettività.




E la risposta dovrebbe essere: "ci proverò".




Il che dovrebbe essere considerato come un invito a sforzarsi di non dire menzogne, specie nel caso in cui si può essere consapevoli di dirle.



QUANDO UNA TEORIA E' GIUSTA?




Non basta una teoria giusta per avere ragione. La giustezza di una teoria non può essere decisa dalla teoria stessa. Se una teoria pretende di farlo, allora è sicuramente una teoria sbagliata, perché inevitabilmente troppo in ritardo rispetto al movimento della realtà.




Ecco perché diciamo che la migliore teoria è quella che riflette meglio le contraddizioni pratiche della realtà, i suoi bisogni essenziali di risoluzione di queste contraddizioni. La migliore teoria non è quella che fa un discorso rigorosamente coerente o meramente critico sulla realtà, ma quella che nasce dalla realtà stessa e che si preoccupa di risolvere concretamente i problemi che di volta in volta incontra.




Una teoria giusta è inevitabilmente una teoria contraddittoria, come lo è la realtà che deve affrontare. L'unica coerenza ammissibile è quella relativa alla preoccupazione di risolvere i problemi che permettono a tutti gli esseri umani di vivere dignitosamente, in modo conforme alle leggi di natura. La coerenza in sé non è un pregio ma un difetto.




Cerchiamo di spiegare questa cosa in altra maniera. Sotto un certo punto di vista non è importante interpretare un filosofo o un politico o un economista... secondo verità, cioè senza tradire ciò che ha detto, poiché, col passare del tempo, ciò che di vero egli aveva detto, potrebbe mostrarsi limitato, lacunoso, se non addirittura falso.




Se uno, dopo aver detto una cosa, potesse vedere il futuro e scoprire che l'applicazione di quello che ha detto ha prodotto risultati diversi se non opposti a quelli preventivati, certamente non amerebbe che ci si sforzasse d'interpretarlo nella maniera più corretta possibile. Non saprebbe che farsene di un'interpretazione del genere.




Infatti, quel che più importa, per il bene del genere umano, è che uno venga interpretato mostrandone i limiti, non per negare la verità di quel che ha detto, ma, anzi, per riproporla in forme più avanzate, più approfondite. E se, facendo questo, ci si prende la libertà di sostenere che la nostra nuova interpretazione è compatibile con quanto quel filosofo o politico sosteneva, cioè che quanto noi oggi sosteniamo è ciò che avrebbe voluto sostenere lui stesso, col senno del poi, che importa? Lui, se potesse parlarci, ci direbbe che abbiamo compiuto un passo avanti verso la conoscenza della verità delle cose, proprio sforzandoci di reinterpretare la sua verità senza tradirla. Ci ringrazierebbe d'averlo interpretato meglio di quanto lui stesso avrebbe potuto fare. Siamo noi che dobbiamo appartenere alla verità perché essa possa appartenerci.




Non è forse questo il modo di leggere il passaggio da Marx a Lenin? Lenin interpretò Marx come facevano i marxisti "legali"? quelli più "ortodossi"? Sicuramente no, eppure se Marx fosse vissuto al tempo di Lenin, avrebbe riconosciuto in quest'ultimo il suo più fedele interprete, proprio perché aveva saputo andare oltre il "marxismo" senza tradirlo nell'essenza.




La verità va al di là di quello che uno pensa di sé. Anzi, non è affatto detto che l'interpretazione più corretta di ciò che uno ha detto sia quella più conforme a verità; non è affatto detto che la verità sia quella di chi pensa che non possa esserci una dimostrazione della verità delle cose superiore alla sua (come p.es. faceva il Kant della prima Critica), né quella (interpretativa) che pretende di essere più conforme al pensiero di quest'ultimo. Chi interpretò meglio Hegel, gli "ortodossi" della Destra o gli "eretici" della Sinistra?




Anche se uno avesse detto le cose più giuste, più profonde e persino più vere su una determinata cosa, non è detto che, a distanza di anni, lo sarebbero ancora, al punto di non dover sottostare a un'analisi critica.




In realtà ciò che più conta è trovare il legame che unisce una verità (che si rivela col tempo) parziale con un'altra verità parziale, al fine di ottenere, sopra quello stesso argomento, una verità ancora più completa. Gli uomini debbono soltanto mettere i mattoni uno sull'altro, seguendo le procedure, rispettando il lavoro già fatto da altri prima di loro, ma l'edificio intero non si sa quando finirà (ammesso e non concesso che abbia davvero una fine).




A tutt'oggi non si vede ancora nessuno in grado d'interpretare Lenin meglio di quanto lui stesso avrebbe potuto interpretarsi (qualcosa s'è visto in Gorbaciov, ma è durato troppo poco). Per poterlo fare infatti bisogna ereditare la sua scienza della politica, facendola diventare "scienza umana".



TEORIA DELLA VERITA' E LOGICA DEL "SE"




Una qualunque teoria della verità non può prescindere dalla logica del "se" ipotetico. Proviamo infatti a partire da questo presupposto: gli americani non hanno liberato l'Italia dai nazisti, si sono piuttosto sostituiti a loro nell'occupazione del nostro paese, e le basi Nato sono ancora lì a dimostrarlo.




Se gli Usa non fossero entrati in Italia, i nazisti, una volta sconfitti a Berlino dai sovietici, sicuramente si sarebbero arresi, come sempre avviene in questi casi, e l'Italia avrebbe deciso con maggiore autonomia la strada politica alternativa al fascismo.




Forse la resistenza contro il nazifascismo si sarebbe trasformata in guerra civile, visto che la maggior parte dei partigiani erano socialisti e soprattutto comunisti, i quali non avrebbero accettato, tanto facilmente, un semplice trasferimento di poteri dal fascismo "esplicito" del duce al fascismo "implicito" della Dc di De Gasperi, che tale restò fino praticamente agli anni 1968-69.




Forse in presenza della guerra civile sarebbero intervenuti gli americani, già presenti in Spagna, Francia e Germania. Ma allora sarebbe parso più legittimo chiedere aiuto ai sovietici da parte dei partiti di sinistra.




Certo, forse poteva scoppiare una sanguinosa guerra civile, analoga a quella spagnola degli anni Trenta. Ma mentre in Spagna vinse la destra, sostenuta praticamente da tutti i paesi capitalisti avanzati (la sinistra fu sostenuta indirettamente e per un breve periodo di tempo solo dall'Urss e dalle Brigate Internazionali); in Italia invece avrebbe anche potuto vincere la sinistra, visto che i sovietici avevano già sconfitto il nazismo.




E' comunque difficile credere che gli americani non sarebbero intervenuti in caso di guerra civile in Italia. In fondo le due armi atomiche gettate sul Giappone dovevano proprio far capire ai sovietici che se si voleva continuare la guerra contro il capitalismo, questo non avrebbe esitato a difendersi ricorrendo a qualunque tipo di arma, contro qualunque tipo di bersaglio.




C'è tuttavia da chiedersi se l'Italia, una volta diventata comunista sul modello sovietico, avrebbe continuato a restarlo, specie dopo la destalinizzazione di Krusciov, dopo i fatti ungheresi del 1956, dopo quelli cecoslovacchi del 1968, dopo i fatti di Solidarnosc del 1981 e infine dopo la svolta gorbacioviana del 1985.




Il comunismo di Togliatti e il socialismo di Nenni furono traditi dal cattolicesimo-borghese di De Gasperi, ampiamente appoggiato dagli Usa e dal Vaticano. Ma se la sinistra fosse andata al governo, non si sarebbe forse sentita ugualmente tradita dal socialismo autoritario sovietico? E, reagendo a questo tradimento, non avrebbe forse potuto imboccare, come gli odierni cinesi, la strada del capitalismo? O avrebbe forse avuto la capacità di trasformare il socialismo da autoritario a democratico, restando nell'ambito del socialismo?




Dunque perché è utile la logica del "se" ipotetico? Perché aiuta a capire non solo le possibilità in atto, ma anche a relativizzare la scelte compiute. Non c'era alcuna imperscrutabile necessità del destino (il concetto di "inevitabilità" non può essere applicato alla storia), e le scelte compiute non vanno considerate come le migliori, né perché hanno un qualche carattere di "necessità storica" che si pone al di sopra della libertà umana, né perché esse sono comunque il frutto di una libertà di scelta, in quanto ad un certo punto sono state "compiute" da qualcuno.




La "bontà" di certe scelte storiche la si misura a posteriori, guardando i fatti, le realizzazioni compiute, anche se è fuor di dubbio che quando le premesse che hanno portato a certe scelte sono "democratiche", è più facile che nel corso delle realizzazioni pratiche si possano correggere in tempo gli inevitabili errori. Un errore "inevitabile" sta semplicemente ad indicare che gli esseri umani non sono "perfetti", ma questo non significa che dalla loro imperfezione ci si debbano aspettare solo scelte sbagliate.



UNA TEORIA ADEGUATA




La difficoltà di elaborare una teoria adeguata alla comprensione della realtà non dipende soltanto dal fatto che la realtà è ambigua, sfuggente, a causa della presenza di forti antagonismi sociali, che obbligano gli individui a simulare e dissimulare i propri comportamenti, ma dipende anche dal fatto che la realtà in sé, essendo umana, non è mai univocamente decifrabile, il che rende quanto mai interessante, accattivante, coinvolgente la stessa difficoltà interpretativa, che assume i contorni di una sfida all'intelligenza umana; tant'è che quando si pensa d'aver acquisito un risultato significativo sul piano dell'analisi interpretativa, subito ci si pone l'obiettivo di scoprire qualcos'altro, come se il non poterlo fare venisse considerato un'incredibile iattura, una sorta di premessa all'insorgere della noia intellettuale e di altri malesseri esistenziali.




Gli esseri umani non si accontentano mai di ciò che hanno, sono per natura curiosi e, pur di scoprire cose nuove, si avventurano in mille pericoli, saggiando così le loro capacità.



DOMANDE E RISPOSTE




E' noto che la famosa frase di Wittgenstein: "D'una risposta che non si può formulare, non può formularsi neppure la domanda"(Tractatus, 6.5), era già stata detta, in altra forma, da Marx: "l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere"(Per la critica dell'economia politica). Cioè una domanda per la quale non è possibile trovare risposta, è una domanda inutile, oziosa. Marx addirittura sosteneva che se non esistono le basi materiali per la ricerca di una soluzione efficace, le domande non vengono neppure poste: "il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione".




Si è pensato che questo modo di ragionare poteva essere sfruttato per negare valore alle domande di tipo metafisico o religioso. Marx tuttavia lo utilizzò anche per giustificare il fatto che, nonostante l'evidenza delle contraddizioni capitalistiche, in Europa occidentale non si riusciva a fare la rivoluzione socialista, sicché ad un certo punto egli fu indotto ad affermare che fino a quando le civiltà (o formazioni sociali) non hanno esaurito tutte le loro potenzialità, non c'è modo di realizzare una transizione verso l'alternativa. Ed è noto che questa tesi fu smentita da Lenin.




Naturalmente Wittgenstein non affermò la propria tesi allo scopo di metterla in relazione al crollo del capitalismo: la mise soltanto in relazione alla crisi della metafisica (o dell'idealismo filosofico in generale), benché a nessuno possa sfuggire l'esistenza di un certo qual nesso tra antagonismo sociale e metafisica.




Ora, la cosa curiosa è che se si vuole accettare la tesi di Wittgenstein per dimostrare l'insussistenza della metafisica, si rischia nello stesso tempo di porre una grave ipoteca sull'esigenza di superare il capitalismo. Se infatti non è possibile porsi domande sulla transizione solo perché ancora non si è esaurita tutta la forza propulsiva del capitale, che destino ci può attendere? A che serve porsi il compito di superare la metafisica? Davvero un'esistenza antagonistica potrebbe sussistere senza l'illusione della metafisica?




Quest'ultima domanda può non apparire collegata alle altre, in quanto l'esigenza di una transizione al socialismo può risultare del tutto indipendente da quella di superare le astrazioni metafisiche. Infatti se la tesi di Wittgenstein sembra sferrare un duro colpo a qualsiasi istanza metafisica, alla prova dei fatti, se non riusciamo a smentire quella di Marx (esattamente come fece Lenin), essa non otterrà alcun risultato apprezzabile, proprio perché senza socialismo democratico l'umanesimo laico risulta sempre poco incisivo. Senza un mutamento sostanziale della base materiale della società, la sovrastruttura culturale conserva ambiguità e incoerenze che ne inficiano la portata eversiva, la capacità innovativa.




Ma allora davvero non possiamo porci se non quelle domande per le quali possiamo prospettare una soluzione? Davvero ogni volta che ci poniamo domande per le quali non riusciamo a trovare risposte, noi rischiamo di finire nelle braccia mortali della metafisica? Ma chi potrà decidere il momento in cui sarà considerato giusto porsi determinate domande? Chi potrà impedirci, e con quale diritto, di usare la facoltà di porre domande per le quali non s'intravvedono ancora risposte adeguate? Chi potrà impedire agli uomini di sentirsi stimolati a cercare risposte a domande apparentemente senza risposta? Chi siamo noi per stabilire i confini entro cui la libertà di pensiero può muoversi? Chi ci autorizza a stabilire quando le risposte alle nostre domande sono così giuste da rendere inutile il compito di cercarne altre?



L'ORIGINE DELLE COSE




Quanto meno si è capaci di stabilire l'origine delle cose, tanto più se ne avverte l'infinità. Se per l'uomo fosse essenziale ricordarsi il momento della propria nascita (individuale o come specie), ne conserverebbe una memoria chiara e distinta. Questo dimostra che per la nostra coscienza è del tutto irrilevante sapere l'origine delle cose e persino, se vogliamo, la loro fine: ciò che più importa è la consapevolezza di appartenere a un processo in perenne movimento. Essere e Nulla coincidono nel Divenire. Quello che conta è la trasformazione da una condizione a un'altra, l'autotrasformazione delle cose verso livelli superiori di consapevolezza.




Siamo tutti parte di un processo storico dove le cognizioni scientifiche più evolute sono destinate a diventare quelle interiori della coscienza, che è l'unica a poter garantire l'assoluta dialetticità dei processi, cioè il loro continuo automovimento. Siamo parte di un'eternità, che lo si voglia o no. E non riusciamo a dare una definizione univoca di nulla, poiché ogni affermazione è una negazione.




Tuttavia, a livello di considerazione storica, è utile, anzi necessario, sapere l'origine dei fenomeni. Il motivo sta nel fatto che, generalmente, le cause che determinano i processi storici sono quelle stesse che spezzano la continuità del rapporto naturale con le cose. Le scelte operate dagli uomini, nel corso della loro evoluzione storica, hanno sempre scardinato il rapporto equilibrato che avevano con la natura e con loro stessi.




Noi dobbiamo conoscere le cause dei fenomeni per trovare il modo di risolvere i problemi che quei fenomeni hanno generato. La storia per noi è una lunga sequenza di conflitti insopportabili e di tentativi per riuscire a risolverli. E' sulla ricerca di questi tentativi che si può misurare l'efficacia delle soluzioni proposte.




Con Marx ed Engels abbiamo capito che non ci può essere soluzione di problemi se non si trasforma la base materiale della vita produttiva. Con Lenin abbiamo capito che è impossibile trasformare questa base senza una preventiva rivoluzione politica. Oggi abbiamo capito che se nel fare la rivoluzione politica non si rispetta la libertà di coscienza, la differenza di genere e l'esigenza riproduttiva della natura, qualunque soluzione trovata sarà inevitabilmente illusoria.



IL CRITERIO DELLA VERITÀ




Bisogna convincersi di una cosa che ormai ha raggiunto l’evidenza lapalissiana: ogni enunciato teorico che pretenda di porsi come una tesi scientifica, oggettivamente inconfutabile, è destinato, di per sé, ad essere smentito.




Smentito da altri enunciati? Ciò non significa nulla, poiché un’opinione vale l’altra, e non c’è mai una vera ragione che ci autorizzi a considerare un’opinione migliore di un’altra. La verità è una cosa che va verificata sul campo, alla prova dei fatti: il criterio della verità è la prassi.




Proprio per questa ragione dobbiamo dire che un qualunque enunciato teorico può sempre essere smentito dalla storia. Non esiste né mai esisterà un enunciato che possa essere inattaccabile. Paradossalmente si perde più tempo a contraddire una tesi sul piano teorico che ad aspettare ch’essa si realizzi concretamente. È la forza dei fatti che deve dimostrare l’attendibilità o meno di una tesi. Quando si contraddice una tesi, bisogna unicamente lasciar parlare i fatti.




Ecco perché il processo della confutazione può essere fatto solo a posteriori. La teoria, rispetto alla vita, ha un’importanza relativa. Non è assolutamente possibile farsi un’idea del tipo di vita che vive una persona, a partire dal suo modo di parlare o di scrivere.




Un’esistenza (quando è positiva) è infinitamente più ricca delle parole che usa per esprimersi. Viceversa, quando è negativa può essere infinitamente più povera delle parole che usa. Ecco perché chiunque dà un’importanza eccessiva alla parola o alla scrittura, finisce col perdere la propria vita, l’essenza delle cose; finisce coll’illudersi di potersi identificare con le proprie parole. Questo processo è tipico della mentalità autoritaria o individualistica.



LA VERITÀ DELLE COSE E L’IGNORANZA




Prima o poi ogni essere umano è costretto a rendersi conto della verità delle cose, oppure può rimanere per sempre nell’ignoranza?




È difficile pensare che un adulto possa restare nell’ignoranza tipica del bambino. L’ignoranza di un adulto non è mai completamente ingenua, ma quasi sempre viziata da elementi quali: la malafede, il pregiudizio, l’orgoglio, la volontà di non sapere, l’interesse...




Naturalmente ci sono gradi diversi di conoscenza della verità, a cui peraltro non corrispondono i relativi modi di vita. Non è infatti detto che a un alto grado di conoscenza della verità corrisponda un adeguato tipo di esistenza. Spesso anzi è più facile incontrare una certa onestà di fondo in quelle persone che meno conoscono la verità delle cose.




Oggi peraltro il problema si pone in termini ancora più radicali: una volta acquisita una buona conoscenza della verità delle cose, è possibile che, se ad essa non corrisponde un’adeguata esperienza della verità, il soggetto regredisca a forme di consapevolezza e di esperienza volutamente concepite contro la verità?




Cioè l’acquisizione della verità (o di una sua parte) può risultare così insopportabile da indurre il soggetto a preferire la falsità? (È noto che la falsità esime il soggetto dal dovere di assumersi delle personali responsabilità al cospetto della verità acquisita).




La fuga nella falsità è tuttavia illusoria, poiché con essa non si è in grado di risolvere i problemi emersi in virtù dell’acquisizione della verità. Se questi problemi non vengono risolti, non c’è falsità che tenga: essi, prima o poi, sono destinati a riproporsi e in forme ancora più acute e costringenti.




L’ignoranza quindi non può mai essere una scelta consapevole di vita (secondo l’immagine che Platone ha dato di Socrate, per intendersi). L’ignoranza è uno stato, una condizione naturale da cui bisogna uscire per diventare adulti. L’adulto che decide di viverla, in realtà sceglie la falsità.




Compito dell’adulto responsabile è quello di dimostrare che questa scelta è sbagliata. Nessuno deve potersi illudere che la menzogna non possa essere giudicata dalla verità.



LA VERITÀ COME CONFRONTO




I




La verità sta nel saper individuare i limiti al di là dei quali essa viene negata. Cioè non è la consapevolezza della verità che può fissare i limiti: è il contrario, poiché il processo di assimilazione della verità è sempre graduale e a-posteriori. I limiti sono definiti dal bisogno stesso di ricercare la verità delle cose (tautologia). Bisogno che non è solo individuale ma collettivo. La verità dunque è il frutto di un confronto interumano in cui ad un certo punto vengono posti dei limiti aldilà dei quali non è possibile andare, se si vuole restare nella verità. Non c'è verità se non in riferimento ad una determinata prassi umana.




È la contraddizione della realtà che induce l'uomo a trovarne una soluzione. E la contraddizione fondamentale è quella dei rapporti antagonistici basati sulla proprietà privata. Questa forma di proprietà rende inevitabile quella forma di rapporti. L'assenza della proprietà privata non elimina la realtà della contraddizione, ma solo il suo carattere antagonistico.




La filosofia è stata il tentativo di superare questo antagonismo, ma solo col marxismo essa ha compreso come bisognava abolire la proprietà privata (di qui la sua trasformazione in politica). Tuttavia, la filosofia, pur cercando di svolgere questo tentativo risolutore, spesso è stata usata per giustificare l'antagonismo e la proprietà privata. Occorre quindi distinguere gli aspetti progressivi da quelli regressivi della filosofia.




II




In Grecia, quando la società era dominata dagli aristocratici, la filosofia tendeva a privilegiare la fissità dell'essere; quando invece la società era caratterizzata dalla contestazione dei ceti mercantili e artigianali, la filosofia tendeva a privilegiare il movimento dell'essere, cioè il suo rapporto col non-essere.




A volte la filosofia aristocratica, spinta dalla contestazione democratica, è arrivata ad ammettere l'unità degli opposti, ma senza mai accettare il superamento di una "fase" dello sviluppo sociale per opera di un'altra "fase". La legge della perenne trasformazione delle cose non può essere condivisa sino in fondo dall'aristocrazia, poiché essa implica l'evoluzione della realtà verso un fine superiore, qualitativamente progressivo.




Quei pochi filosofi conservatori che sono arrivati ad ammettere la perenne trasformazione delle cose, l'hanno fatto per avvalorare la tesi qualunquista della "vanità delle cose" (relativismo dei valori, opportunismo della politica ecc.). In ogni caso hanno rifiutato di applicare quella legge al loro presente. La dialettica, ammessa in sede teorica, s'è scontrata, sul piano pratico, con gli interessi di classe.




Questo sta a significare che esiste, a livello intellettuale, un processo che spinge gli uomini verso la verità, ma che tale processo, se non è sostenuto da una prassi adeguata, rischia di bloccarsi e addirittura di capovolgersi nel suo contrario, cioé di servirsi della falsità per impedire che il processo della verità giunga alle sue logiche conclusioni.




III




Religione e filosofia, nell'ambito della proprietà privata, vanno considerate come due forme di alienazione, anche se, per loro mezzo, l'uomo ha progressivamente maturato una migliore consapevolezza della verità delle cose.




Si potrebbe in un certo senso dire che la filosofia non è che una forma laicizzata della religione. La filosofia non emerge quando la religione è molto sofisticata, ma quando una religione molto sofisticata risulta incompatibile con la prassi sociale. E' l'incoerenza di teoria religiosa e prassi sociale che porta l'uomo a ridurre le pretese della religione e a creare una riflessione che sia più coerente con la prassi. Da questa innovazione, naturalmente, trae beneficio la stessa prassi, che tende a evolvere in maniera più laica. Nella misura in cui la filosofia ha cercato di superare i limiti di una religione invivibile, si può con certezza dire che la filosofia ha svolto un ruolo progressivo.




Questo non significa che a una filosofia sofisticata ma decadente, non possa succedere un nuova religione, all'inizio meno sofisticata ma certamente più dinamica e progressiva. Quando ciò però avviene, il problema fondamentale dei rapporti antagonistici basati sulla proprietà privata resta irrisolto. Infatti, l'unico modo di risolverlo è quello di superare le modalità della religione e della filosofia in virtù della politica rivoluzionaria.




Tutte le religioni, tutte le filosofie e tutte le politiche sono destinate a scomparire con la ricomposizione dell'unità sociale dell'uomo, conseguente alla fine della proprietà privata. Che cosa resterà? La scienza, per la vita quotidiana e la coscienza, per la riflessione su questa vita.



SULLA VERITÀ




Nel rapporto umano vero si è necessariamente nudi, non ci si può nascondere. Questa forma d'identità è rimasta -ultimo baluardo- nel rapporto di coppia: non tanto o non solo perché esiste un'attrazione dei sessi, quanto perché nella sfera dell'amore è ancora rimasto un briciolo dell'unità della persona o dell'esigenza di questa unità.




Spesso infatti si nota che a un impegno profuso in politica corrisponde l'impegno a tenere separata la famiglia dalle questioni politiche. Questa posizione è tipica del "borghese" che è disposto alle più profonde alienazioni in politica e che s'illude di poter ritrovare l'unità, l'armonia, nella vita familiare (su questo si legga Horkheimer). Come se l'alienazione politica potesse rimanere fuori della porta di casa!




Tali individui, in realtà, ritengono che i valori della loro famiglia non possono avere alcuna influenza nell'ambito della politica. Da ciò però non traggono la conclusione che i valori della stessa politica andrebbero ripensati; anzi, pur di ottenere un certo benessere economico o un certo prestigio politico, preferiscono scendere a compromessi, rinunciando a una parte della propria identità umana. Si rendono forse conto, tali individui, che questi continui compromessi portano col tempo alla perdita di tutta l'identità umana? È possibile che i politici, che vogliono conservare inalterato il loro potere, non sappiano che i compromessi diventano sempre più grandi? Come possono sperare di ritrovare l'unità in famiglia quando in politica si chiede loro il massimo della lacerazione possibile? In Italia casi come quello dello stragismo di destra, il delitto Moro, il disastro di Ustica, la P2, il crack del Banco Ambrosiano (con i delitti Calvi e Sindona), tutta l'attività a delinquere della criminalità organizzata, Gladio e tutti i falliti tentativi golpisti in funzione anticomunista... sono come dei macigni che pesano sulla coscienza o meglio sulla "incoscienza" della nostra classe politica governativa.




Anche l'amore quindi è un concetto mistificante, terribilmente vuoto, se con esso si ha la pretesa di costituire un'alternativa (privata, personale) all'alienazione dominante nei rapporti sociali, politici e istituzionali. È questo, in fondo, il limite maggiore di tutte le religioni (e nel campo del materialismo antropologico-naturalistico il limite di Feuerbach).




* * *




La vita su questa terra è come un banco di prova: c'è chi supera ogni difficoltà, chi si abbatte al primo colpo e chi non fa nemmeno in tempo a fiatare. C'è chi paga per gli errori degli altri e chi dai propri non impara mai. Chi matura per la fatica che fa e chi dispera perché pensa di farne troppa. Chi pensa di non aver bisogno di alcuna prova, in realtà perde il suo tempo e lo fa perdere anche agli altri, che dovranno dedicare parte del loro tempo a risolvere quei problemi ch'egli con la sua stupidità avrà creato.




Le prove sono in qualche modo proporzionate alle nostre forze, alle nostre capacità o comunque a quello che la storia ci permette di fare. La storia non giudica e non condanna nessuno: offre solo delle opportunità. Gli uomini si giudicano e si condannano da soli, in base ai loro successi e ai loro fallimenti. Non ci sono prove senza senso. La storia non è un luogo isolato, vuoto, sperduto nello spazio, dove le cose si ripetono meccanicamente, senza un vero significato per l'uomo. La natura sembra che non sappia dove vuole andare; è sempre uguale a se stessa, dominata da leggi meccaniche, che non mutano da mai. Essa ha un proprio equilibrio, che l'uomo può anche rompere, modificare, nel bene e nel male (almeno sino ad un certo punto). In ogni caso è soltanto l'uomo che può capire che esiste un processo storico diretto verso la verità delle cose, verso l'affermazione della piena identità umana (che è il prodotto più significativo della natura).




Questo processo riguarda tutti (almeno come genere umano, in quanto ancora non siamo in grado di stabilire con certezza se continua a riguardare ogni singolo individuo, anche dopo la sua morte). Tutto il genere umano è coinvolto in questo processo verso la verità: può esserlo in forma inconscia, ma col passare del tempo lo è sempre più in maniera consapevole. Sempre più infatti si ha la consapevolezza di essere nell'universo una cosa sola; sempre più si sente l'universo come una cosa troppo "piccola" per poter contenere lo sconfinato livello di consapevolezza umana.




Quanto più ci avviciniamo alla verità assoluta, tanto più chi la rifiuta deve perfezionare la propria ipocrisia. Sino al compimento del processo storico, l'ambiguità caratterizzerà tutta la vita dell'intero genere umano. Noi viviamo nel chiaroscuro perché in parte vediamo la verità e in parte non la vediamo. La verità non è un'evidenza, ma una faticosa conquista. Occorre impegnarsi attivamente a favore della giustizia per capire dove sta la verità.




In un certo senso infatti la verità è un processo che s'impone da sé, in quanto l'uomo è comunque destinato alla verità, ma in un altro senso i tempi che caratterizzano questo processo possono essere molto più lunghi del previsto, proprio a causa dell'atteggiamento sbagliato degli uomini, che rifiutano la verità. Non è affatto scontato che la fine della storia coinciderà con l'affermazione della verità a livello mondiale: potrebbe anche coincidere con l'affermazione della menzogna, seppure a livello solo ufficiale, formale, apparente. Quella menzogna che ha appunto bisogno di un'affermazione del genere per sconfiggere l'emergere di una verità sempre più cosciente di sé.




Il fatto che l'uomo sia destinato alla verità non dovrebbe essere considerato negativamente: in fondo si tratta della verità non della menzogna. Tuttavia sussiste il problema di come conciliare la consapevolezza della verità con l'esperienza della libertà. Se esiste un processo oggettivo, indipendente dalla volontà dell'uomo, verso la verità, esso deve svolgersi rispettando pienamente il valore della libertà. Ma rispettare questo valore significa permettere all'uomo di procedere in direzione opposta, cioè verso la menzogna.




La domanda che s'impone insomma è la seguente: fino a che punto l'uomo può procedere in direzione della menzogna? Qui la risposta varia a seconda della concezione che si ha dell'uomo. Se noi riteniamo che l'uomo sia un essere "buono" di natura, allora il processo verso la menzogna si svolgerà in un tempo limitato, nel senso che l'esperienza della menzogna ad un certo punto raggiungerà un'intensità assolutamente insopportabile per la coscienza. Il problema però è proprio questo, che noi non siamo in grado di stabilire in anticipo quando ciò avverrà; noi non abbiamo neppure il diritto di forzarne il compimento. Al massimo possiamo lottare affinché il passaggio dalla menzogna alla verità avvenga in maniera meno traumatica possibile.




* * *




L'uomo comunque è destinato alla verità, anche se non in maniera lineare. L'esperienza della libertà porta gli uomini a procedere in maniera discontinua, con alti e bassi, a zig-zag, con momenti di stasi e di riflusso, di pericolose deviazioni e di slanci superbi. L'esperienza della libertà, infatti, può essere positiva o negativa: quella negativa fa soltanto perdere del tempo che poi va recuperato, e il recupero spesso è molto doloroso. S'illudono quegli uomini che credono di poter raggiungere la verità scegliendo un percorso non autorizzato.




Ma che cos'è la verità? Questa domanda metafisica che Pilato duemila anni fa pose al Cristo (secondo il vangelo di Giovanni) sta a fondamento dell'intera storia della filosofia. Per i greci infatti la verità coincideva (ingenuamente, ma dal punto di vista morale era corretto) con l'evidenza; a partire da Hegel, invece, si è definitivamente capito che la verità è relativa, ovvero che l'evidenza spesso inganna e che gli uomini possono mentire sapendo di mentire.




Dunque, che cos'è la verità? Gli scettici sostengono che se la verità è relativa, allora essa non esiste. Ma questa è una posizione di comodo. Un moderno scettico è Popper, il quale, sostenendo che tutto è falsificabile, non ha mai voluto accettare che questa sua stessa idea potesse esserlo. Se l'avesse fatto avrebbe avuto di fronte a sé due alternative: o il suicidio o la follia. In realtà, il concetto di relatività della verità non vuole portare l'uomo né all'uno né all'altra: esso piuttosto presuppone che la verità vada affermata in maniera dialettica, critica, contestuale, senza schemi precostituiti.




La dialettica serve all'uomo per comprendere che la conoscenza della verità assoluta è un processo storico di cui non si può conoscere il momento finale, conclusivo. Gli uomini marciano verso la verità assoluta, che lo sappiano o no: alcuni ne sentono letteralmente il bisogno, altri lo fanno senza saperlo, altri ancora fanno di tutto per marciare in direzione opposta, anche se, nonostante questo, contribuiscono lo stesso all'affermazione della verità. In ogni caso chi lo fa con consapevolezza, nel mentre lo fa, dispone soltanto di una verità relativa.




* * *




Ora, ciò che rende "vera" una verità relativa non è ovviamente la sua coerenza interna, la sua capacità logica o la sua profondità speculativa, ma è solo ed unicamente l'esperienza positiva della libertà. La vera discriminazione fra una verità e l'altra bisogna ricercarla nell'esperienza della libertà. L'unità di metodo e contenuto è ciò che garantisce alla verità relativa d'essere "vera". Il confronto delle opinioni è quanto mai relativo se non ci si avvale anche del confronto delle esperienze. Ecco perché diciamo che un ignorante che si sforza di essere coerente fra quel poco che sa della verità e la sua vita, è più vicino alla verità assoluta dell'intellettuale diviso in se stesso.




Tuttavia, qui bisogna rinunciare a un'altra pretesa, quella di credere che dal confronto delle esperienze di libertà gli uomini debbano necessariamente giungere alla verità. L'acquisizione soggettiva della verità è un processo che non può essere forzato in alcuna maniera, proprio in quanto esso coinvolge non solo l'ambito della conoscenza, ma anche quello della libertà. Anche il giorno in cui gli uomini saranno vicinissimi alla conoscenza della verità assoluta, vi potrà sempre essere qualcuno che, dal profondo della sua libertà, deciderà di starvi lontano.




Noi possiamo immaginare solo una cosa: il processo verso la verità assoluta obbliga gli uomini ad approfondire la loro esperienza della libertà, nel senso che quanto più ci si avvicina alla verità tanto più, chi la rifiuta, deve trovare in sé profonde motivazioni. Sotto questo aspetto ci si deve aspettare, nel futuro, una maggiore profondità non solo dell'esperienza della libertà positiva ma anche di quella della libertà negativa. Questo perché il fatto di avvicinarsi progressivamente alla verità non è di per sé sicura garanzia di una scelta per la libertà positiva. La profondità della conoscenza della verità implica solo un'analoga profondità nell'esperienza della libertà. Oggi non abbiamo dubbi nel sostenere che l'uomo è in grado di mentire anche se conosce esattamente la verità. I greci non sono mai arrivati a questa profonda conoscenza della libertà negativa; gli ebrei invece vi si erano avvicinati di più.




Un altro aspetto da considerare e approfondire è il seguente: il processo verso la verità assoluta è un processo storico, nel senso che nessun individuo singolo può giungere alla verità assoluta prima che i tempi storici siano giunti a maturità. Ma questo implica anche un'altra cosa, che i tempi storici sono oggettivi, indipendenti dalla volontà dell'uomo. Sono proprio questi tempi che spingono la libertà dell'uomo ad approfondirsi e a ricercare una conoscenza della verità più adeguata alle moderne esigenze.




* * *




Non esiste alcun enunciato teorico che di per sé possa attestare meglio di un altro la verità delle cose. La verità non è basata sull'evidenza, altrimenti tutti vi crederebbero.




La verità è dialettica, cioè ambigua e spesso paradossale, imprevedibile, cioè è presente là dove meno ce lo si aspetta.




L'unica evidenza possibile è la persona, col suo stile di vita. Se una determinata persona ci risulta equivoca, è perché non abbiamo saputo approfondire il rapporto.




Ma anche quando un rapporto è profondo, quando si superano le ambiguità poiché è subentrata la fiducia reciproca, quando cioè l'evidenza della verità diventa una questione di fiducia, che si basa, a sua volta, sulla comunanza di beni comuni, resta sempre un margine di insicurezza, di imponderabilità.




Questa insicurezza è la dialettica, che impedisce l'identità assoluta delle cose e delle persone. Non è cosa da temere, ma anzi da salvaguardare, perché fonte di democrazia. Quando la dialettica è vissuta nella comunanza di beni e tradizioni, una verità può anche essere falsa sul piano scientifico che non per questo va a intaccare la sostanza dei rapporti umani.




Noi non abbiamo bisogno, in primo luogo, di verità scientifiche, ma di verità umane, cioè di verità che sappiano dare un senso alla vita. Verità non intellettuali ma derivate da tradizioni comuni.




* * *




Un linguaggio davvero "scientifico", senza margini d'errore, assolutamente chiaro e univoco, non esiste o, se esiste, è un'aberrazione, un arbitrio, un'inutile pretesa. Infatti non esiste in alcun modo la possibilità che una parola, una frase, una qualunque espressione scritta o orale non possa essere fraintesa. Si tratta semmai di stabilire il grado del fraintendimento.




L'ambiguità è strutturale all'esserci, ma non si tratta di un'ambiguità assoluta, altrimenti gli esseri umani arriverebbero alla pazzia o al suicidio. E' un'ambiguità relativa, che lascia al soggetto il compito di cercare la verità delle cose.




La verità infatti esiste, ma in maniera nascosta, e per trovarla occorre una certa predisposizione d'animo, una certa disponibilità a cercarla. La verità si lascia trovare da chi vuole trovarla.




Non è solo una questione d'intelletto, ma anche di sensibilità, in quanto bisogna saperla cercare. Con l'intelletto si può trovare una verità elementare, formale, convenzionale, basata su postulati o su enunciati che possono essere complessi solo formalmente, ma che non riguardano la complessità della vita umana. La verità va cercata con la ragione, che è una sintesi di intelletto, esperienza e ragioni del cuore.




Detto questo è falsa l'asserzione secondo cui il linguaggio scientifico non esiste: esso in realtà esiste, solo che non è evidente. La verità infatti non è un'evidenza in cui tutti dobbiamo credere. Se fosse così, la ricerca non esisterebbe: sarebbe sufficiente credere in una rivelazione. Non esisterebbe neppure la parola "verità" da contrapporre a una "falsità". Chi mai potrebbe credere in una falsità se esistesse una verità evidente? Solo un pazzo o uno in malafede.




Solo una verità rivelata è una verità evidente. Questo è un postulato irrinunciabile per qualunque credente. Ora, di fronte a una verità del genere, chi avrebbe il coraggio di mentire, di scegliere una strada diversa? Chi lo faceva veniva forse immediatamente perseguitato?




Di fronte a una verità rivelata non dovrebbe neppure esistere la possibilità di sbagliare, o comunque ogni errore andrebbe considerato come dettato, in prima istanza, dalla malafede: il che sicuramente non può essere, visto che strutturale all'esserci è anche la facoltà del pentimento, dell'autocritica. Gli inquisitori medievali sapevano di questa cosa, ecco perché torturavano: volevano essere sicuri che il pentimento non fosse finto. Come se la tortura potesse offrire delle certezze!




Il linguaggio scientifico esiste, ma solo per chi crede nella possibilità della verità. Tuttavia la verità può essere considerata tale solo se siamo disposti a mettere in discussione, quando ne abbiamo sufficienti ragioni, le affermazioni scientifiche in cui crediamo.




Dunque ciò che vanno evitati sono soltanto la cecità, il fanatismo e il dogmatismo con cui si tratta un problema così delicato e complesso come quello della verità.




Sostenere che la verità non esiste, solo perché nella vita tutto appare così mutevole e relativo, significa non essere dialettici, aver abdicato alla superficialità.




* * *




Una qualunque produzione teorica deve essere collegata alle esigenze del tempo presente. E' questo e solo questo che la rende veramente contestuale e, paradossalmente, di valore imperituro. Essa infatti costituisce, per le generazioni future, un modello esemplare di unità di teoria e prassi.




Naturalmente una produzione teorica sarà tanto più preziosa quanto più avrà saputo riflettere le vere esigenze del suo tempo. E' su questo e solo su questo che si misura la differenza di valore fra un'opera intellettuale e un'altra.




Le vere esigenze bisogna saperle individuare, valorizzare, comprendere nella loro radice, postulando, per esse, delle ipotesi risolutive. A tale scopo gli interessi di classe giocano un ruolo decisivo.



QUALE CONDIZIONE ASTRATTA PER LA VERITA'?




Esiste una condizione astratta sufficientemente valida, universalmente accettabile, che possa permettere di formulare giudizi che abbiano un tasso di obiettività superiore ad altri giudizi?




Una potrebbe essere questa: sforzarsi di comprendere sino in fondo le ragioni altrui, cercando in queste stesse ragioni ciò che impedisce alla verità di assolutizzarsi. Questo “quid” non va considerato in maniera negativa, ma proprio come un limite necessario allo sviluppo della consapevolezza della verità. Una qualunque assolutizzazione della verità significa infatti negarla.




Detto altrimenti: quanto più si pensa di avere assolutamente ragione, tanto più si è costretti a negare agli altri una qualunque partecipazione alla ricerca della verità.




La condizione per poter formulare un giudizio il più possibile obiettivo è dunque quella di non presumere di poterlo formulare a prescindere totalmente dalle ragioni altrui. La condizione è dunque soltanto una “disposizione d’animo”.




Quando si vuol far dipendere strettamente la verità dall’interesse, quando cioè si ritiene che il proprio interlocutore non possa mai affermare alcuna verità autentica, essendo i suoi interessi radicalmente opposti ai nostri, l’intolleranza diventa inevitabile. Si arriva non solo ad affermare che “una” verità è “la” verità, ma anche che non possa esservi in futuro una nuova forma di quella stessa verità. La verità diventa dogmatica.




Nei Sinottici vi sono due episodi in cui l’interesse per la ricchezza appare antitetico a quello opposto del Cristo: uno è quello del “giovane ricco”, l’altro quello del “pubblicano Levi” (poi diventato l’apostolo Matteo).




Se il Cristo avesse guardato l’incompatibilità oggettiva dovuta alla ricchezza, non avrebbe dovuto neppure interloquire con quei due personaggi. Erano tutti e due molto ricchi, entrambi con valide ragioni per poterlo essere, entrambi disposti a considerare le ragioni altrui (in questo caso quelle del Cristo), sino al punto di mettere in discussione le fondamenta delle proprie. Entrambi erano alla ricerca di qualcosa che li gratificasse sul piano o etico (il giovane ricco) o politico (Levi).




Eppure solo uno accettò la sequela al Cristo, solo uno decise di militare nel suo movimento. Il giudizio obiettivo dominante sosteneva che i ricchi non avrebbero mai potuto partecipare all’insurrezione anti-romana, a meno che non avessero rinunciato alle loro ricchezze, cosa che nessun ricco in genere faceva.




Invece il Cristo riuscì a dimostrare che il giudizio dominante non era così obiettivo. Cercando di capire le ragioni dell’avversario, si poteva più facilmente indurlo a trovare nelle sue stesse ragioni un torto fondamentale, in forza del quale, una volta ammesso, si poteva pensare di formulare un nuovo giudizio sulla realtà.




 


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