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Rubriche > RUBRICA LEGALE > La responsabilità oggettiva nel diritto penale - Appunti
La responsabilità oggettiva nel diritto penale - Appunti
Articolo di Avv. Carlo Vitaliano pubblicato il 2/5/2012 (2799 Letture)
DirezzioneLa responsabilità oggettiva nel diritto penale. Conflitto tra la responsabilità oggettiva e i principi costituzionali. Le singole ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nell’ordinamento penale. I reati aggravati dall’evento. Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto. Le condizioni obbiettive di punibilità.


Avv. Carlo VitalianoAppunti di diritto penale



1. Conflitto tra la responsabilità oggettiva e i principi costituzionali.

La responsabilità oggettiva è prevista a livello normativo nell’articolo 42 comma III del codice penale, laddove tale norma dispone che la legge determina i casi in cui l’evento è posto a carico del soggetto agente “altrimenti”, cioè a prescindere dalla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, e sulla base del mero nesso di causalità. Per tale principio una persona può essere condannata alla fine di un processo penale sulla base del fatto che l’evento sia una conseguenza della sua azione od omissione, senza che rilevi il legame psichico tra soggetto e fatto. Secondo la dottrina la responsabilità oggettiva trova la sua ragion d’essere nel fatto che l’ordinamento abbia interesse a che determinati eventi non si verifichino. Tale necessità, reputata meritevole dall’ordinamento giuridico, non appare certamente in linea con alcune norme costituzionali, tanto da aver portato nel tempo (memorabile e fondamentale la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale) ad una rivisitazione di tutte, o quasi, le norme che comportano tale tipo di responsabilità. E ciò perché l’imputazione della responsabilità obbiettiva ostacola il funzionamento di due principi rilevanti a livello costituzionale, quali il diritto alla libertà personale (art. 13) e il principio di colpevolezza (di cui all’articolo 27). E’ chiaro sin dal principio come una responsabilità di tipo obbiettivo possa compromettere la libera autodeterminazione delle persone in quanto, dal momento in cui Tizio sa che può essere punito se la sua condotta può causare un evento non tollerato dall’ordinamento, al di là di una sua volontà di causarlo o di una sua imprudenza o negligenza, sarà molto più propenso a non tenere quella condotta. Risulterebbe, in tal modo, che l’ordinamento penale vada ad influire sulle azioni umane e sulla capacità di autodeterminarsi delle persone, con palese restringimento della garanzia connessa ad un valore assoluto come la libertà.

Ancora più problematico il rapporto tra la responsabilità oggettiva e l’articolo 27 Cost. Come si ebbe già modo di notare quando parlavamo della colpevolezza, l’articolo 27 Cost. presenta al comma I un principio degno di attenzione: la responsabilità penale è personale. Questo principio fu valutato secondo varie accezioni: 1) non esiste responsabilità per fatto altrui, salvo il caso in cui vi siano posizioni di garanzia per cui un soggetto ha l’obbligo giuridico di evitare il fatto illecito di terzi; 2) la responsabilità penale è della persona fisica e non dell’ente, questo qualora si accetti la natura amministrativa della responsabilità delle persone giuridiche disciplinata dal d.lgs. 231/2001; 3) la responsabilità penale è per fatto proprio. Tale ultima accezione faceva risultare costituzionalmente legittimo l’imputazione obbiettiva dell’evento, in quanto era sufficiente che l’evento appartenesse obbiettivamente all’agente, cioè fosse una conseguenza esteriore della sua azione od omissione. Reputare l’accezione predetta degna di considerazione in senso positivo è certamente fuorviante, poiché non si tiene in considerazione non solo il conflitto che essa comporta con l’articolo 13 Cost. prima citato, ma anche e soprattutto quello con il comma II del medesimo articolo, che dispone che le pene devono tendere alla rieducazione del reo. La disapplicazione di questo principio costituzionale è lampante laddove si consideri che un soggetto non legato psichicamente all’evento causato non comprenderà il trattamento sanzionatorio, poiché egli giustificherà la reazione dell’ordinamento solamente qualora abbia voluto l’evento lesivo o l’abbia causato con un comportamento comunque avvertito come biasimevole. La mancata accettazione dell’evento genera la percezione della pena come irragionevole ed ingiusta e paralizza la finalità rieducativa per il semplice motivo che il reo non si sottoporrà a tale trattamento, stante il fatto che egli si sentirà incolpevole rispetto all’accaduto.    





 2. La sentenza della Consulta n. 364 del 1988.



Le motivazioni illustrate nel precedente paragrafo hanno orientato la Corte Costituzionale a intervenire su una delle tante ipotesi di responsabilità oggettiva che, prima dell’emanazione della sentenza stessa, esistevano nell’ordinamento, cioè l’articolo 5 del codice penale. Si badi al fatto che tali ipotesi, di cui pure si discuterà, siano rimaste invariate nel loro tenore letterale (salvo casi rari) ma debbano essere rilette alla luce dei principi sanciti dal Giudice delle Leggi e ad essi adeguate. L’articolo 5 del codice penale dispone che l’ignoranza della legge penale non scusa, e quindi non è di per sé sufficiente ad escludere la punibilità. Questa norma si fonda su una presunzione di conoscenza da parte del consociato, delle norme penali, e quindi esclude che la persona possa liberarsi dalle accuse indicando che non conosceva la norma incriminatrice della cui violazione è accusata. La Corte Costituzionale, con la sentenza di cui all’oggetto, ha indicato che ogni forma di presunzione utilizzata dall’ordinamento integra un’ipotesi di responsabilità oggettiva che, in quanto tale, contrasta con i principi costituzionali prima elencati. E contrasta soprattutto con il principio di cui al primo comma dell’articolo 27 Cost., che non può essere solo letto come responsabilità per fatto proprio ma anche come responsabilità per fatto colpevole. Ciò significa che per rimproverare effettivamente una persona c’è bisogno che quest’ultima non abbia fatto nulla di concreto e valido per conoscere la norma penale, e abbia perciò tenuto la condotta illecita. Nel momento in cui un soggetto fa tutto quanto è nelle proprie possibilità per conoscere dell’eventuale illiceità di un proprio potenziale comportamento, e nonostante ciò rimane nello stato di ignoranza, egli non è rimproverabile in concreto, perché ha adempiuto con diligenza all’unico obbligo concernente il rapporto tra persona e norma giuridica, cioè il dovere di informarsi. La Corte enuclea anche situazioni e cause tipiche che potrebbero causare il perseverare dello stato di ignoranza. Esse sono l’oscurità della norma giuridica, i revirements giurisprudenziali, le informazioni errate da parte di organi, enti, istituzioni e soggetti pubblici specificamente competenti nei settori che riguardano l’ambito di applicazione della norma, eventuali passate sentenze di assoluzione ricevute dal soggetto agente in casi apparentemente analoghi. Vi è da aggiungere che lo stato di dubbio sulla illiceità non consente mai la scusabilità del comportamento illecito, in quanto il soggetto accetta comunque il rischio che il suo comportamento possa costituire reato. Inoltre, ai fini della scusabilità, verranno valutate anche le condizioni soggettive della persona, come le esperienze di vita, la professione, l’età, il grado di intelligenza, il grado di integrazione o di emarginazione sociale. Proprio perché si tratta di giudicare la scusabilità di un comportamento in base alla diligenza riposta dalla persona, l’articolo 5 così come modificato dalla sentenza additiva della Corte sarà da inserire tra le scusanti legalmente riconosciute. In breve, quando risulta che la persona, valutata come singolo individuo dotato di proprie caratteristiche soggettive, abbia adempiuto con diligenza all’obbligo di informarsi e, nonostante ciò, sia rimasta nello stato di ignoranza senza nemmeno sfiorare lo stato di dubbio, in maniera incolpevole e assolutamente non rimproverabile, non sarà punibile per il reato inconsapevolmente compiuto.

La sentenza in questione trascende l’ambito di riferimento di cui si è discusso finora, ovvero quello legato alla singola scusante, e tocca un ambito più esteso quale è quello della sussistenza delle ipotesi di responsabilità oggettiva nell’ordinamento. La Corte Costituzionale ci dice che l’elemento soggettivo è imprescindibile, cioè che per la punibilità di un soggetto non è sufficiente il mero nesso di causalità, bensì la condotta dovrà lasciar trasparire il legame psichico tra soggetto ed evento. Più precisamente la Consulta indica come gli elementi che generano o accrescono l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice devono essere sostenuti almeno dalla colpa. Questo principio ha delle ripercussioni enormi nell’intero ordinamento penale perché si traduce nell’esigenza di rivedere tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nella legge penale alla luce del principio di colpevolezza, ed esigere che il soggetto si trovi almeno in colpa rispetto all’evento. Ogni qualvolta si leggeranno norme nelle quali il legislatore ha omesso la considerazione per l’elemento soggettivo, il tenore letterale della norma dovrà subire un’aggiunta del tipo “quando alla condotta del soggetto consegua l’evento X il soggetto sarà punito se l’evento era da lui in concreto prevedibile”. Il concetto di prevedibilità in concreto ci aiuta a leggere tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva abbinando alle stesse l’elemento soggettivo della colpa, questo in quanto la colpa si fonda proprio sulla previsione/prevedibilità dell’evento come conseguenza della propria condotta.





3. Le singole ipotesi di responsabilità oggettiva presenti nell’ordinamento penale.



il delitto preterintenzionale



In base all’articolo 43 c.p., il delitto è preterintenzionale o oltre l’intenzione quando l’evento dannoso o pericoloso è più grave di quello voluto dall’agente come conseguenza della propria azione od omissione. Esistono due tipi di delitto preterintenzionale nel nostro ordinamento penale, e cioè l’omicidio preterintenzionale e l’aborto preterintenzionale. Entrambi i delitti citati si fondano su una base comune. Si può dire infatti che è punito il soggetto che, compiendo atti diretti a ledere o percuotere, causa la morte del soggetto passivo o del feto. Ci si interroga sulla natura dell’elemento soggettivo. Una parte della dottrina ritiene che si debba sdoppiare tale elemento soggettivo in due frangenti, di cui uno che sostiene la condotta voluta (compimento di atti diretti a ledere o percuotere) e uno che contempla il momento successivo, e cioè l’evento più grave verificatosi in concreto. Il primo frangente sarebbe coperto dal dolo mentre il secondo (l’evento) sarebbe addossato obbiettivamente in base al mero nesso di causalità, cioè in base al mero essere conseguenza della condotta dell’agente. Altra parte della dottrina (FIORE) ritiene invece che si debbano prendere in considerazione sempre i due momenti citati ma, mentre il primo è coperto dal dolo, il secondo sarebbe coperto dalla colpa. Su questa seconda tesi bisogna spendere qualche altra parola, poiché la colpa, per sua natura, si fonda sulla violazione di una regola di diligenza, e ci si chiede nel caso concreto quale sia la norma precauzionale violata. V’è chi dice che la norma di diligenza sia da rintracciare nelle stesse norme incriminatrici dei reati di percosse e lesioni. Autori più attenti (FIANDACA) ritengono che accettando tale tesi si cadrebbe nel paradosso di accettare che le norme incriminatrici nello stesso tempo incriminino una condotta e la autorizzino a patto che il soggetto agente, in maniera diligente nel compiere il reato, non vada oltre quella fattispecie e non sfoci in un evento più grave di quello contenuto nei limiti entro i quali si verificherebbero le fattispecie meno gravi ( “Non commettere i reati di percosse o lesioni, ma se decidi di farlo fallo bene!”). Altra dottrina autorevole ritiene che vi sia un errore di fondo nella bipartizione dei momenti, in quanto pare che sulla base di tale bipartizione debba concludersi che vi siano due azioni: una compiuta al fine di percuotere o ledere, e l’altra in concreto compiuta che causa l’evento più grave. In realtà l’azione è unica ed è un’azione che dalle modalità e caratteristiche esteriori deve rivelare l’intenzione dell’autore di realizzare uno dei due reati-base, senza che si richieda peraltro che tale intenzione si estrinsechi attraverso un tentativo, in quanto nelle norme relative ai delitti preterintenzionali non si riscontra il requisito dell’idoneità, che invece sussiste nell’articolo 56 sul tentativo. L’evento più grave sarà addebitabile al soggetto agente qualora venga verificato che egli ha previsto o poteva prevedere tale esito sulla base delle caratteristiche e modalità dell’azione nonché sulla base delle condizioni del soggetto passivo. Ecco che quindi, volendo reputare meritevole di considerazione la tesi della bipartizione della condotta in due segmenti, è proprio la seconda tesi descritta a valere, cioè quella dell’unione di dolo e colpa (rectius, dolo e prevedibilità in concreto). Se si fa valere la tesi dell’unicità della condotta, che è quella più attinente alla realtà materiale del fatto, può condividersi invece il pensiero di chi reputa il delitto preterintenzionale un’ipotesi di aberractio delicti dello stesso genere. Nell’aberractio delicti l’agente per errore nell’esecuzione del reato voluto, o per altra causa, cagiona un evento diverso da quello voluto, che verrà allo stesso addebitato a titolo di colpa (che originariamente veniva letto come una responsabilità oggettiva, mentre ora la colpa verrà valutata sempre secondo il criterio della prevedibilità in concreto). Nel caso del delitto preterintenzionale può dirsi che vi sono gli stessi elementi: 1) una condotta finalizzata ad un reato, 2) un evento diverso, 3) un errore colposo nell’esecuzione o altra causa sempre di natura colposa, che abbia causato tale evento. A tali elementi è da aggiungere un carattere che non è presente nell’aberractio, e cioè sia il reato-base a cui puntava l’agente, sia la lesione finale (più grave) concretamente accaduta sono dello stesso genus, cioè offendono un bene giuridico attinente l’incolumità personale.



Responsabilità del direttore e del vice-direttore per reati commessi a mezzo stampa   



Prima dell’intervento della legge 127/58, l’articolo 57 del codice penale disponeva che, qualora un reato fosse stato commesso a mezzo stampa (si immagini una diffamazione), ed evidentemente fatta salva la responsabilità dell’autore diretto dell’articolo, il direttore o il vice-direttore “per ciò solo” sarebbero stati ritenuti responsabili dell’accaduto in concorso con l’autore stesso. Si trattava quindi di un’ipotesi di responsabilità oggettiva, addossata solo per il fatto che fosse accaduto l’evento fatto illecito dell’articolista. Dopo la suddetta novella del 1958 la norma è stata modificata, prescrivendo la responsabilità a titolo di colpa di tali soggetti apicali solo in caso di omissione di controllo sull’altrui operato. Superate le obiezioni di parte della dottrina che riteneva che non fosse stata superata la responsabilità oggettiva a causa dell’inciso “a titolo di colpa” (che evidentemente veniva letto alla pari di “come se il reato fosse colposo”), attualmente bisogna ritenere che la colpa vada accertata in concreto come culpa in vigilando, e che il reato ascritto alle suddette persone debba essere inquadrato nella tipologia del concorso omissivo colposo in reato commissivo (normalmente) doloso, almeno nella forma del dolo eventuale. Il controllo richiesto è un controllo sulla credibilità e attendibilità delle fonti usate dall’articolista, senza che possa tradursi in un controllo nella verità della notizia o in una supervisione durante l’attività di scrittura dell’articolo. La rimproverabilità del direttore (o del vice-direttore) sarà via via più tenue quanto più è complessa la struttura organizzativa dell’azienda giornalistica, poiché la difficoltà nel controllo sull’altrui operato diverrebbe eccessivamente capillare.



I reati aggravati dall’evento   



Molto spesso nel codice penale vengono incriminate determinate condotte, e viene irrogata una pena superiore nel caso in cui, da quella condotta già ab origine punita, derivi un evento ulteriore. E’ il caso del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, art. 572 cod. pen., che viene punito con la reclusione da uno a cinque anni, ma se si verificano lesioni o la morte del soggetto maltrattato la pena aumenta nel minimo e nel massimo fino a raggiungere i 20 anni (in caso di morte, appunto). Anche tali ipotesi normative erano inserite nell’ambito della responsabilità oggettiva, presentando ora la necessità di essere adeguate al parametro della colpevolezza, che come abbiamo detto richiede che ogni elemento che costituisce o aggrava l’offesa a beni giuridici del soggetto passivo deve essere coperto almeno dalla colpa. Ineludibile, quindi, il ricorso al principio della prevedibilità, già più volte citato in questi paragrafi. Il soggetto agente, volendo rapportarci all’esempio prima fatto, verrà ritenuto responsabile per la lesione o la morte solo quando fosse in concreto prevedibile che la condotta base avrebbe potuto aggravarsi raggiungendo tale stadio ulteriore.



Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 cod. pen.)



“Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate”.



Su questa norma ci sono alcune considerazioni da fare. L’articolo si applica quando la morte o le lesioni sono conseguenze di un altro delitto che si è perfezionato. Ciò significa che il soggetto agente commette un delitto per il quale egli risulterà già di per sé punibile. Da questo delitto discende come effetto la morte (cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo) o la lesione (qualsiasi menomazione funzionale dell’organismo che trascende i meri mutamenti anatomici). La norma definisce la conseguenza “non voluta”, ma non è questo a farci propendere per la responsabilità oggettiva. L’essere non voluta la conseguenza, significa solo che la morte o la lesione non devono essere dolose, altrimenti si applicheranno le norme di omicidio doloso e lesioni dolose. Inoltre l’art. 586 dispone che si applichino le regole dell’articolo 83. L’articolo 83 ci dice che, nel caso in cui un soggetto per errore nell’esecuzione del reato o per altra causa generi un evento difforme da quello voluto, sarà punito a titolo di colpa. Il problema, prima della sentenza del 1988 della Corte Costituzionale era tutto qui, e consisteva nel fatto che l’inciso “a titolo di colpa” era da intendersi come “come se fosse colposo”. Quindi, poiché l’articolo 83 forniva una fattispecie di responsabilità oggettiva ed integrava l’articolo 586, rendeva anche quest’ultimo un’ipotesi di responsabilità oggettiva. Attualmente questo problema è risolto, dovendosi effettivamente verificare la colpa come previsione/prevedibilità in concreto dell’evento difforme. Cercando di mettere ordine in quanto dice l’articolo 586, si può giungere a queste conclusioni. La norma è applicabile quando un soggetto agente commette un delitto e ha in concreto previsto (o poteva prevedere) che da quel delitto sarebbe scaturita come conseguenza la morte o la lesione. Allo stesso tempo il soggetto agente non deve aver voluto tali eventi ulteriori, altrimenti sarà punito a titolo di omicidio doloso o lesioni dolose. Stanti i presupposti appena citati, l’agente sarà punito secondo le regole del concorso formale tra reato-base e omicidio colposo o lesioni colpose, le cui pene (quelle dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose) saranno aumentate fino ad un terzo.

I due casi più rilevanti di applicazione dell’articolo di cui all’oggetto sono quelli del suicidio a seguito di un delitto (ad esempio le violenze sessuali ripetute, lo stalking, le molestie, le estorsioni, ecc) e quello della morte del consumatore dopo l’acquisto della dose personale di stupefacente ed il suo utilizzo. Nel primo caso, la Cassazione penale ha stabilito che l’evento morte potrà essere addossato all’autore del reato-base quando per le modalità della condotta ad esso relative, per le condizioni socio-economiche, e per quelle personali e psichiche del soggetto passivo era in concreto prevedibile che l’azione criminosa fosse idonea a porre la vittima dinanzi alla drammatica scelta tra un’esistenza intollerabile e il suicidio. Nel caso della morte del consumatore, prima citato, deve adottarsi lo stesso criterio, cioè quello della prevedibilità in concreto della morte (superando le molteplici tesi della responsabilità oggettiva pura, della colpa implicita, della colpa per fatto assolutamente illecito, e della prevedibilità in astratto). Lo spacciatore che venda una quantità di sostanza stupefacente ad un acquirente risponderà della morte di quest'ultimo se, per le circostanze concrete (oggettive, ad esempio inerenti alla qualità o al taglio della merce; soggettive, ad esempio le visibili condizioni di salute del soggetto passivo, la sua età, ecc.) poteva prevedere che alla sua condotta in re ipsa illecita sarebbe potuto seguire l'evento morte del consumatore.



Le condizioni obbiettive di punibilità



Le condizioni obbiettive di punibilità sono disciplinate dall’articolo 44, il quale dispone che quando la legge subordina la punibilità di un reato al verificarsi di una condizione, il soggetto è punito per il compimento del reato anche se l’evento oggetto della condizione si verifica per causa a lui non imputabile soggettivamente. La condizione, quindi, agisce dopo che il reato è già perfetto in tutti i suoi elementi, e opera solo sulla punibilità del reo. E’ anche importante ai fini del decorso del termine di prescrizione, il quale comincia con l’evento che sta alla base della condizione, e non col precedente perfezionamento del reato (la regola generale è infatti quella del momento della consumazione del reato, salvo i casi di delitto tentato per il quale non vi è consumazione e il caso del reato permanente per il quale si considera il venir meno dello stato di antigiuridicità). Prima della sentenza 364/88, le condizioni obbiettive di punibilità rappresentavano, come dice il loro nome, una ipotesi di responsabilità obbiettiva. Attualmente, pur essendo intervenuta tale sentenza, che potrebbe farci propendere per un totale adeguamento di tali condizioni al principio di colpevolezza, è doveroso ripartire le condizioni obbiettive di punibilità in due categorie: le condizioni intrinseche e le condizioni estrinseche. Le condizioni intrinseche (ad es., il nocumento a seguito di rivelazione di segreto professionale) sono basate su eventi che, se si verificano, approfondiscono l’offesa al bene giuridico di riferimento. Quelle estrinseche (ad es., il pubblico scandalo nel reato di incesto) non hanno questo effetto e sono eventi che, inseriti nella norma incriminatrice, proteggono interessi contingenti esterni alla tutela del bene giuridico del soggetto passivo. Adottando il criterio disposto dalla Consulta (ogni elemento che costituisce o approfondisce l’offesa al bene giuridico tutelando deve essere coperto almeno da colpa), si dovranno considerare le condizioni estrinseche come le uniche ipotesi di responsabilità oggettiva sopravvissuta nel nostro ordinamento a seguito della sentenza predetta, mentre per quelle intrinseche dovrà adottarsi il normale criterio della previsione/prevedibilità, in modo da richiedere che esse siano legate psichicamente, oltre che obbiettivamente, alla condotta dell’autore del reato.



 


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