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Rubriche > SOTTO VOCE > Sesso pazzo
Sesso pazzo
Articolo di Anonimi pubblicato il 26/1/2015 (1824 Letture)
La notte facciamo finta di non vedere e di non sentire. Ci chiudiamo in ufficio con le birre e le sigarette. Anche noi operatrici abbiamo vite di merda: tutte precarie, incasinate, con figli a carico, compagni depressi e genitori che invecchiano. L’infelicità corrode anche noi. “La paura mangia l’anima”, diceva qualcuno. Vorremmo non avere più paura, noi e i nostri amici qui dentro: noi non vorremmo più vivere con la paura di essere scoperti noi e perdere quei 27,50 a notte, loro vorrebbero essere liberi di scopare e desiderare come, quanto e con chi vogliono.


Il sesso fra dementi non lo possiamo consentire – sentenziò il Capo. A definirlo con la sua qualifica tecnica, il Capo è il Coordinatore della struttura residenziale psichiatrica in cui lavoro. I turni di notte me li pagano ventisette euro e cinquanta. Nella mia ingenuità di operatrice alle prime armi, avevo fatto l’errore di chiedere che venisse inserito come punto all’ordine del giorno della riunione mensile d’équipe la questione dei desideri e dei bisogni sessuali delle persone ospiti qui. La risposta fu così secca e disarmante da costringere me e pochi, pochissimi, altri operatori a auto-costituirci in un gruppo clandestino, quasi carbonaro, che abbiamo battezzato “Sesso pazzo”. Sembrerebbe uno scherzo, ma non lo è. Da pochi mesi – fino a quando non lo scopriranno e mi licenzieranno – io sono un’operatrice del “sesso pazzo”. L’elemosina che mi fanno per 12 ore di lavoro consecutivo in una comunità psichiatrica ad alta soglia, se vorranno, la potranno usare per sniffarci i componenti chimici dei farmaci (devastanti, letteralmente devastanti) che somministrano ai pazienti ad ogni loro sussulto emotivo, ad ogni rivendicazione di auto-determinazione, ad ogni risveglio del dolore e dei ricordi.


donnauomo45


Marco ha solo 22 anni. All’età di 7 anni sua madre gli ha fracassato il cranio con una spranga di ferro. Lesioni cerebrali ed una sofferenza dentro atroce, incredula, risucchiante. Espulso dalla comunità per minori cui era stato affidato al compimento della maggiore età, ce l’hanno mandato qui, a fare non si sa bene cosa. Tenerlo qui, a botte di farmaci, tv e partite a calciobalilla, la domenica il gelato sul mare, è l’unica risposta che gli offre lo Stato, la collettività. Marco non è matto. Marco ha bisogno di decidere per sé.



Letizia e Franco si vogliono bene. Sono tranquilli. Hanno circa 50 anni. A loro viene permesso di andare da soli la mattina, al bar, a prendere un caffè. Questo lo chiamano “progetto di inclusione”.

Giovanni ha perso il lavoro a 60 anni, una moglie invalida ed una figlia disabile a carico. Si è dato fuoco davanti ai Servizi sociali. L’hanno portato qui.



Il marito di Mariella scopava con un altro uomo. Lei lo ha scoperto, ha avuto una brutta depressione. Non aveva un lavoro, non aveva una casa. L’hanno mandata qui. Pillole a gogò, pasti caldi ed un letto da rifare la mattina. Loro risolvono così.



I manicomi non esistono più, ma la gestione dei corpi da parte dello Stato – in nome di una presa in carico esclusivamente clinica e mai sociale e politica – è uno schifo peggiore: è la sovra determinazione delle vite fragili. Nonostante la convivenza forzata, nonostante i farmaci e l’isolamento, qui di nascosto, sussurrando, arrossendo, scrivendocelo su bigliettini gialli, tutti ci dicono che gli manca il sesso, e che sentono forte il bisogno di calore, corpi e carezze.



Così noi del “sesso pazzo”, le operatrici a pochi spiccioli per notte, abbiamo fatto quello che le donne sanno fare da sempre. Aggirare il sistema e rispondere ai bisogni. Di nascosto, distribuiamo preservativi e vibratori, biancheria intima secondo i gusti, abbiamo allestito una stanza (dicendo che era per le urgenze notturne) lasciando un pc per chi volesse guardare video porno e masturbarsi, organizzando i turni e i cambi lenzuola per le coppie che chiedono di stare in intimità. Abbiamo portato un paziente da una sex-worker come dite voi dicendo ai responsabili che lo accompagnavamo ad un colloquio di lavoro.



La notte facciamo finta di non vedere e di non sentire. Ci chiudiamo in ufficio con le birre e le sigarette. Anche noi operatrici abbiamo vite di merda: tutte precarie, incasinate, con figli a carico, compagni depressi e genitori che invecchiano. L’infelicità corrode anche noi. “La paura mangia l’anima”, diceva qualcuno. Vorremmo non avere più paura, noi e i nostri amici qui dentro: noi non vorremmo più vivere con la paura di essere scoperti noi e perdere quei 27,50 a notte, loro vorrebbero essere liberi di scopare e desiderare come, quanto e con chi vogliono.



La lotta è la stessa: liberare i nostri corpi dalla violenza sociale ed economica perché tornino ad essere corpi desideranti. Avere vite da scegliere come le vogliamo vivere. Avere sostegni adeguati. Non negoziare i diritti. Sentirci meno soli. 



 



 


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