NICCOLÒ MACHIAVELLI E LA TEORIZZAZIONE DELL'AUTONOMIA DELLA POLITICA

Data 8/1/2024 8:50:00 | Categoria: News

ItaliaCon Niccolò Machiavelli (1469-1527) inizia una nuova epoca del pensiero politico: infatti l'indagine politica tende a staccarsi dal pensiero speculativo, etico e religioso, assumendo come canone metodologico il principio della specificità del proprio oggetto, che deve essere studiato (potremmo dire con espressione telesiana) iuxta propria principia, ossia autonomamente, senza essere condizionato da principi valevoli in altri ambiti, ma che solo indebitamente potrebbero essere fatti valere per l'indagine politica.


Niccolò Machiavelli La posizione di Machiavelli

La posizione di Machiavelli può anche riassumersi con la formula «la politica per la politica», la quale esprime sinteticamente e plasticamente non altro che il concetto di autonomia sopra illustrato.



Certo, la brusca sterzata che si riscontra nelle riflessioni di Machiavelli, rispetto ai precedenti Umanisti, è in larga misura spiegabile con la nuova realtà politica che si era venuta a creare in Firenze e in Italia, ma suppone anche una grossa crisi dei valori morali ormai dilagante.



Essa non solo prendeva atto della scissione fra «essere» (le cose come stanno effettivamente) e «dover essere» (le cose come dovrebbero conformarsi ai valori morali), ma elevava a principio la scissione stessa e la poneva a base della nuova visione dei fatti politici.



I punti su cui è necessario fissare l'attenzione sono:



a il realismo politico, cui è congiunta una forte vena di pessimismo antropologico;

b il nuovo concetto di virtù, del principe che deve governare efficacemente lo Stato e che deve saper resistere alla fortuna;

c infine, la tematica del ritorno ai principi, come condizione di rigenerazione e di rinnovamento della vita politica.



Il realismo di Machiavelli



Per quanto concerne il realismo politico, è basilare il capitolo XV del Principe (scritto nel 1513, ma pubblicato solo nel 1531, cinque anni dopo la morte dell'autore), in cui viene messo a tema il principio che bisogna stare alla «verità effettuale della cosa» e non perdersi nel ricercare come la cosa «dovrebbe» essere: si tratta, insomma, di quella scissione fra «essere» e «dover essere» di cui in precedenza si diceva. Ecco le precise parole del Machiavelli:



Resta ora a vedere quali debbano essere e' modi e governi di uno principe con sudditi o con li amici. E, perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri. Ma, sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.



Machiavelli giunge addirittura a dire che il sovrano può trovarsi in condizione di dover applicare metodi estremamente crudeli e disumani; ma quando a mali estremi sono necessari rimedi estremi, egli deve adottare tali rimedi estremi ed evitare, in ogni caso, la via di mezzo, che è la via del compromesso che non serve a nulla, anzi è sempre e solo di estremo danno. Ecco la cruda pagina che si legge nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (scritti fra il 1513 e il 1519 e pubblicati nel 1532):



Qualunque diventa principe o d'una città o d'uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fussono deboli, e non si volga o per via di regno o di repubblica alla vita civile, il megliore rimedio che egli abbia a tenere quel principato è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa in quello stato di nuovo; come è, nelle città fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare

i ricchi poveri, i poveri ricchi, come fece David quando ei diventò re: «qui esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes»; edificare oltra di questo nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; ed in somma non lasciare cosa niuna intatta in quella provincia, e che non vi sia né grado, né ordine, né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale con questi modi, di piccol re diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui dice che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come e' mandriani tramutano le mandre loro. Sono questi modi crudelissimi e nimici d'ogni vivere non solamente cristiano ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie del mezzo che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni.




Queste amarissime considerazioni sono legate a una visione decisamente pessimistica dell'uomo. Di per sé, secondo Machiavelli, l'uomo non è né buono né cattivo, ma di fatto ha una spiccata propensione a essere cattivo.




Pertanto, il politico non può fare affidamento sull'aspetto positivo dell'uomo, ma deve piuttosto prendere atto del prevalente aspetto negativo, e agire in maniera conseguente. Non dovrà dunque avere esitazioni a farsi temere e a prendere le misure occorrenti per rendersi temibile. Certo, l'ideale supremo per un principe sarebbe quello di essere, a un tempo, e amato e temuto. Ma le due cose sono ben difficilmente conciliabili, e dunque il principe farà la scelta più funzionale all'efficace governo dello Stato.



La virtù del principe



Le doti del principe, che ben emergono da questo quadro, sono chiamate da Machiavelli «virtù». Ovviamente la virtù politica del Machiavelli non ha nulla a che vedere con la virtù in senso cristiano.



Egli usa il termine riprendendo l'antica accezione greca di areté, ossia di virtù come abilità naturalisticamente intesa. Anzi, si tratta della areté greca come era concepita prima della spiritualizzazione che di essa Socrate, Platone e Aristotele avevano operato, trasformandola in ragione che opera in funzione del Bene. In particolare, essa ricorda il concetto di areté che avevano in modo particolare alcuni dei primi Sofisti.



Più volte negli Umanisti questo concetto fa capolino, ma Machiavelli lo porta alle estreme conseguenze. Luigi Firpo l'ha descritto molto bene: «Virtù è vigore e salute, astuzia ed energia, capacità di prevedere, di pianificare, di costringere: è soprattutto volontà che fa argine alla piena straripante degli eventi, che dà regola — sempre parziale, ahimè, e caduca — al caos, che costruisce con invitta tenacia l'ordine entro un mondo che frana e si disgrega perpetuamente. Il volgo degli uomini è vile, malfido, avido, dissennato; non persevera nei propositi; non sa resistere, impegnarsi, patire per raggiungere una meta; appena il pungolo o la sferza cadono di mano al dominatore, subito le fiacche turbe gettano i pesi, scantonano, tradiscono. Anche per la grande tradizione medioevale della politica cristiana l'uomo decaduto e peccaminoso era stato affidato in terra alla potestà civile, portatrice della spada, perché i prevaricatori fossero tenuti a freno da una forza materiale inesorabile: ma quella forza si giustificava in vista della salvezza dei buoni e grazie alla divina investitura dei sovrani, fatti strumento di una severità moralizzatrice. Qui invece è la massa intera degli uomini che affonda nell'ottusa malvagità e la virtù stessa — che dà e giustifica il potere — non ha nulla di sacro, perché costringe ed edifica, ma non educa e non redime». 



 



 






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